UNA COLATA DI CEMENTO LUNGA MEZZO SECOLO

MAPPA DELLA ‘TERRA RUBATA’

Tra le 11 regioni finora monitorate (Umbria, Molise, Puglia, Abruzzo, Sardegna, Marche, Valle d’Aosta, Lazio, Liguria, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia), l’erosione del suolo dell’ultimo mezzo secolo è avanzata ad un ritmo spaventoso, passando da un incremento minimo di circa il 100%, in Umbria, Liguria, Valle d’Aosta e Friuli, fino a oltre il 400%, in Molise, Puglia e Abruzzo, e più del 500% per l’Emilia Romagna. Per la Puglia in particolare la copertura urbanizzata attuale è quasi sei volte quella misurata negli anni del dopoguerra.

Caso esasperato è quello della Sardegna che ha fatto registrare un incremento di suolo urbanizzato in poco meno di 60 anni pari a più di 11 volte (1154%) quello degli anni ‘50.
Il territorio perso giorno per giorno. Se il Molise ha trasformato i propri suoli al ritmo costante di oltre mezzo ettaro al giorno, il Friuli e l’Abruzzo sfiorano i due ettari, mentre supera i tre ettari giornalieri la Sardegna. I valori più elevati si raggiungono però in Puglia, con una conversione quotidiano superiore ai 5 ettari tra il 1949 e il 2002 con un massimo in Emilia Romagna di quasi 9 ettari giornalieri tra il 1954 e il 2008.

Crescono le città, anche se gli abitanti diminuiscono

Nonostante in Italia dal 1991 al 2001 secondo i dati dell’Agenzia Ambientale Europea è stata registrata una stabilità demografica, nello stesso periodo le città sono cresciute di 8.500 ettari all’anno. Anzi, paradossalmente, le città hanno continuato ad espandersi persino in quei comuni che tra il 1951 e il 2011 si sono svuotati a causa dell’emigrazione fino a crescere di oltre 800 m2 per ogni abitante perso.
Intorno al secondo dopoguerra, infatti, le regioni studiate avevano tassi molto contenuti della densità di urbanizzazione: Sardegna, Molise, Abruzzo, Marche e Valle d’Aosta erano al di sotto del 7‰, le altre regioni erano posizionate su tassi compresi tra l’1 e il 2% e solamente il Friuli presentava un massimo del 4%. Dal dopoguerra in poi parte l’escalation del mattone: il Friuli e l’Emilia Romagna sfiorano il 10%, Umbria, Abruzzo, Molise e Sardegna si collocano intorno al 3%, mentre Puglia, Liguria e Lazio si attestano intorno al 6 -7%.

La maglia nera del consumo di suolo pro-capite va alla Sardegna: da meno di 49 m2 per ogni abitante, negli anni ’50, passa dopo il 2000 a 10 volte di più, contro le due volte circa del Friuli, le circa cinque volte di Molise, Puglia, Emilia Romagna e Abruzzo, mentre i livelli più bassi si riscontrano in Umbria e Valle d’Aosta con fattori di incremento inferiori a 2.

Urbanizzazione a macchia di leopardo

Le lobby del cemento non solo hanno costruito più case di quelle che possono essere effettivamente abitate ma hanno dato vita ad un’espansione urbana sclerotica, senza alcuna pianificazione, caratterizzata da nuclei di abitazioni sparpagliati rispetto al centro cittadino, per collegare i quali sono state necessarie apposite infrastrutture (strade, servizi ecc.) che hanno portato ad un consumo del suolo sempre maggiore.

Se, ad esempio, si prende in esame il rapporto tra superfici coperte da edifici e quelle destinate ad usi accessori si rileva che questo negli insediamenti storici si attestava tra il 70% e il 90%, mentre negli insediamenti urbani moderni è sceso a valori inferiori anche al 20%, con enormi quote di territorio destinate, ad esempio, a parcheggi.

Gli effetti del consumo del suolo

Il consumo del suolo ha conseguenze che vanno bel al di là dell’impatto visivo: non solo infatti deturpa il paesaggio – cancellandone la memoria collettiva – ma ha ricadute significative su biodiversità, clima, assetto idrogeologico, energia, economia.

L’economia del mattone

Nel Dossier viene calcolato che siano tra gli 8 e i 10 milioni gli italiani collegati direttamente o indirettamente all’attività edilizia. Nel solo 2004 sono stati dati permessi per costruire 54.000 fabbricati, per un volume di oltre 115 milioni di m3: il 20% in più rispetto al 2003. A questo si aggiunge il business delle cave – spesso intercettate dalle ecomafie come discariche o per estrazioni abusive di materiali – agevolato dall’assenza di un attento monitoraggio sia tecnico che giuridico.

Nel solo 2006 sono stati cavati 375 milioni di tonnellate di inerti e 320 milioni di tonnellate di argilla, calcare, gessi e pietre ornamentali: una quantità pari a 250 mila m3, un solido di 250 metri di altezza per 1 km di lunghezza.

Cementificazione:

dall’abusivismo edilizio alla stagione dei condoni

Oltre agli interessi economici delle lobby – protetti e favoriti da un’assenza di pianificazione urbanistica, varianti e deroghe concesse ad hoc da amministrazioni complici – il suolo italiano deve fare i conti, soprattutto a partire dagli anni ’70, con la piaga dell’abusivismo edilizio, che negli ultimi 16 anni è stato sanato e ‘incentivato’ da ben 3 condoni: nel 1985, 1994 e 2003.

Secondo i dati ufficiali riportati nel Dossier, dal 1948 ad oggi si registrano 4,6 milioni di abusi edilizi: 75.000 l’anno e 207 al giorno. Nello stesso periodo sono stati costruiti 450mila edifici abusivi (7.433 l’anno e 20 al giorno) per un totale di 1 milione e 700mila alloggi abusivi abitati da circa 6 milioni di abitanti.

In termini di volumetrie, tra grandi e piccoli abusi, sono state edificati illegalmente 800 milioni di m3. C’è poi da ricordare che due terzi degli abusi edilizi si concentrano in 5 regioni (Calabria, Campania, Lazio, Puglia, Sicilia), 4 delle quali con forte presenza della criminalità organizzata dove si concentra il 49% degli abusi edilizi che con il Lazio arriva al 63%.

Le grandi infrastrutture, un rischio per le aree tutelate

Un altro fattore fortemente impattante sugli ecosistemi e sul paesaggio è rappresentato dalle grandi opere. L’esempio più eclatante, anche in termini di spreco di soldi pubblici, è il programma delle cosiddette Infrastrutture Strategiche previsto dalla Legge Obiettivo del 2001, che negli ultimi 10 anni (dal 2001 al 2011) ha fatto lievitare il numero di opere previste dalle 115 del 2001, per un costo di 125,8 miliardi di euro, alle 390 del 2011 per un costo di 367 miliardi di euro, di cui il 45% delle opere (pari ad oltre 166 miliardi di euro) è rappresentato da strade e il 38% (circa 142 miliardi di euro) da opere ferroviarie.

In 10 anni è stato ultimato solo l’1% delle infrastrutture previste: ovvero 30 opere, per un investimento di 4,4 miliardi di euro. Ammontano al 12% quelle i cui lavori sono in corso, all’11% quelle in gare i affidate e all’11% quelle in progettazione.
Stime prudenziali di WWF e Università dell’Aquila, infatti, rilevano come le opere previste dalle Legge Obiettivo interferiscAno con 84 aree protette, pari al 7% di tutte le aree tutelate; 192 Siti di Interesse Comunitario (SIC), pari al pari all’8% di tutti i SIC italiani; con 64 International Bird Area – IBA, pari al 30% del totale.

L’agricoltura divorata dal cemento

L’espansione incontrollata delle città verso le campagne ha fatto sì che la ben più redditizia economia del mattone prevalesse su quella agricola.  La fame di cemento ha infatti letteralmente divorato i terreni agricoli – e i prodotti tipici provenienti da essi –  grazie soprattutto ad Amministrazioni compiacenti nei confronti delle lobby del cemento che non esitano a trasformare i terreni agricoli in zone edificabili, cambiandone la destinazione d’uso attraverso improbabili varianti urbanistiche che ne fanno così lievitare il valore.

Oltre a questo intreccio di affari e politica, tra le cause che hanno incentivato i Comuni a ‘svendere’ la propria terra c’è anche quel meccanismo perverso di agganciare le entrate municipali alle imposte sugli immobili: per cui un tempo con l’ICI – e a partire dal 2014 con l’IMU – la tassa sulla casa sarà ancora considerata dai Comuni come una vera e propria fonte di autofinanziamento.

Così progressivamente le terre coltivate hanno ceduto il passo all’affare immobiliare: nel 2010 in Italia si contano 1 milione e 600mila aziende agricole e zootecniche: il 32,2% in meno rispetto al 2000.  E, nello stesso periodo, la Superficie Aziendale Totale (SAT) è disunita dell’8% e la Superficie Agricola Utilizzata (SAU) del 2,3%.

Frane e desertificazione: i rischi

Il consumo sfrenato del suolo ha reso il nostro territorio fragile e più povero di risorse: il che per l’uomo vuol dire meno sicurezza e minore possibilità di sostentamento. In Italia circa il 70% dei Comuni è oggi interessato da movimenti franosi. Il numero di frane, al 2006, è di 470mila, per una superficie di oltre 19 mila Kmq. Tra il 1950 e il 2009 le frane hanno provocato 6.439 vittime, tra morti, feriti e dispersi. Inoltre, c’è da ricordare che secondo l’Atlante nazionale delle aree a rischio di desertificazione del 2007  il 4,3% del territorio italiano ha caratteristiche di “insterilimento del terreno”, il 4,7% è “sensibile a fenomeni di desertificazione” e  il 12,7% può essere considerato “vulnerabile alla desertificazione”.

Rispondi

Please enter your comment!
Please enter your name here