Pane raffermo, qualche oliva e un po’ di formaggio. Per intere generazioni di contadini è stato il pasto regale, tra fatica e sudore, nell’inesauribile dedizione alla liturgica e quotidiana dichiarazione d’amore per la propria terra. Talvolta accompagnati dal carattere forte e dolce di una cipolla. Non sempre ravvivati dalla genuinità di un acceso e corposo bicchiere di vino.

Si ringraziava Domine Iddio per la garanzia dell’essenziale e, con quel poco che si riusciva ad avere in casa, la creatività in cucina non conosceva confini. Piatti, ricette e menu nascevano dall’improvvisazione fattasi virtù. Capaci di resistere alla sfida del tempo e all’attacco della modernità. Capolavori che vivono ora una sorta di Rinascimento, anche in assenza  dell’autentico e straordinario presupposto che tutto muoveva: la fame.

Oggi non si ha più fame. Almeno in questa parte di mondo che consuma l’80% di risorse esistenti, pur rappresentando solo il 20% della popolazione mondiale. Laddove non si produce più in funzione dei fabbisogni, ma si corre per consumare e svuotare i magazzini. Si corre perché non si ha tempo di assecondare i cicli della natura. Si corre perché rapiti da un’assurda e vorticosa produzione di desiderio, indispensabile al sostegno di una domanda che si perde nel superfluo. Dopo aver perso la cognizione delle stagioni, il gusto dei sapori e la familiarità col proprio territorio.

Per questo l’invito della chiocciola di Slow Food, a riappropriarsi della lentezza, è uno stimolo al recupero di una dignità smarrita. La dignità della terra e dei suoi processi biologici spontanei. La dignità di un’agricoltura che ci possa ridare il piacere lento e intenso dell’assaporare. La dignità della qualità per la salvaguardia del benessere comune, nonché di quello strettamente personale.

Con la riproposta di questo bouquet di ricette di una cucina ricca di povertà, quale garanzia di genuinità, semplicità e tipicità locale, Antonietta Ursitti e i ragazzi dell’Istituto Einaudi di Foggia ci introducono fra le zolle di un orto perduto. Alla ricerca di antidoti naturali all’avvelenamento da “inutile”, alla dipendenza da droghe tecnologiche, all’ossidazione tossica da additivi, conservanti e anabolizzanti (La cucina povera in Capitanata – Ed. del Rosone, 2009 – 200 pagg. ill.).

Mangiar sano in una terra come la Puglia e nella Daunia in particolare, solcata dai tratturi di una lunga e ciclica transumanza, baciata dal sole e da una luce senza eguali, protesa verso un mare denso di sale, di storia e di civiltà, significa mangiare Mediterraneo. Un regime alimentare adottato ormai come modello. Una filosofia “cafona” con l’idea del cibo come cultura. Perché dietro l’alimentazione contadina c’è tutta la storia di una comunità locale, regionale o nazionale. Perché la cucina di un territorio, con tutte le sue variopinte declinazioni, è pietra angolare della sua più intima identità.

Il terrazzano, i pastori, i transumanti, i Catapani, l’Imperatore e le sue anguille, il Tavoliere, le orecchiette, il pancotto, le cicerchie, i torcinelli, il canestrato, le cicorielle e le verdure spontanee, il Nero di Troia e l’olio crudo d’oliva, sono solo alcuni degli attori protagonisti e dei cantori di una ineguagliabile recita a soggetto. Che in questo affascinante lembo di Puglia va in scena ogni qualvolta ci si siede a tavola, e ci si appresta a celebrare il più antico dei riti quotidiani.

Volerne salvaguardare il suggestivo valore simbolico e l’intrinseco concentrato di gusto e di espressività, è voler bene a questa terra. Voler bene a se stessi e testimoniare l’amore smisurato per chiunque voglia onorare la nostra tavola, sedendo con noi per condividere tale incommensurabile ricchezza di sapori poveri.

Antonio V. Gelormini

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