Pronunciando il nome della Calabria si pensa il più delle volte al mare, a interminabili spiagge o ai boschi dell’Aspromonte, ma in questa complessa regione che rappresenta la punta più estrema del nostro “stivale” esistono realtà molto particolari e molto lontane dalla classica iconografia calabrese.
Dirigiamoci allora tra le montagne della settentrionali della regione e scopriremo che nell’area del Parco Nazionale del Pollino e all’interno della Riserva Naturale delle Gole del Raganello esiste un paese dove si parlano due lingue ufficiali.


Civita, in provincia di Cosenza, è uno dei paesi dove vivono gli arbëreshë, cioè quei quasi centomila discendenti delle popolazioni albanesi che in varie ondate, a partire dalla seconda metà del XV secolo, migrarono dall’Albania verso l’Italia Meridionale e insulare.
Bastano pochi passi tra le suggestive stradine di questo paese steso tra le rocce per scoprire che il Municipio si chiama anche Bashkia, la chiesa Klisha e la scuola Skolla, anche perché tutte le insegne e i cartelli stradali sono rigorosamente bilingue: italiano e arbëresh, un ceppo linguistico parlato nel sud dell’Albania da dove iniziò la lunga fuga in seguito alle persecuzioni turche.


Stiamo parlando di tempi lontani, quando tra il 1467 e il 1471 gli albanesi in fuga fondarono Civita (Çifti, in arbëresh) sulle rovine del preesistente villaggio di San Salvatore, distrutto dai Saraceni di Sicilia nel 1040. A capo della spedizione vi era il principe albanese Giorgio Castriota, detto Scanderberg, di cui è presente un grande busto in una delle piazze del paese.
Naturalmente l’origine albanese caratterizza, oltre alla lingua, anche altre tradizioni.


Nella Chiesa di Santa Maria Assunta si ritrova tutta la simbologia orientale e da oltre cinquecento anni si svolgono le funzioni liturgiche bizantine con canti in albanese.
Tipici del paese sono i comignoli e le “Case di Kodra” o “Case Parlanti”, una definizione che rende omaggio al famoso pittore di origini albanesi Ibrahim Kodra.

Guardandole con attenzione si nota che sono piccole, con una porta (la bocca) e due piccole finestrelle (gli occhi), quasi a voler rappresentare un volto umano. Sono immancabilmente sovrastate da un bizzarro comignolo, differente da casa a casa, considerato la “firma” del mastro muratore e della famiglia stessa.
Il paese si articola, tra viuzze e slarghi, attorno alla piazza centrale. Qui si parla di gjitonia, una parola che significa vicinato ma che sottintende anche la struttura sociale degli abitanti, che si parlano dai galti, i ballatoi davanti che case, che si affacciano sullo sheshi, lo slargo maggiore.


Civita viene chiamata talvolta anche Il Paese del Ponte del Diavolo, per via dell’antico ponte medievale che si affaccia nello strapiombo delle Gole del Raganello, una delle forre più suggestive dell’intera regione.

Sono inserite in una Riserva Naturale Orientata e già questo ne fa comprendere il grande valore naturalistico. Molte frequentate dagli amanti del canyoning, le gole si snodano per ben 17 km dalla sorgente della Lamia fino al Ponte del Diavolo di Civita e offrono, oltre a scorci davvero unici, nelle loro vicinanze un habitat ideale per numerose specie animali, tra cui la volpe, la faina, la donnola, il tasso, l’aquila reale, il falco pellegrino, il gheppio e l’ululone dal ventre giallo.


Prima o poi durante la visita arriva l’ora di pranzo e, siccome siamo lontani dal mare, ci si prepari a gustare una cucina dai sapori forti, perché qui anche la gastronomia ha subito la fusione delle tradizioni albanesi e calabresi che si avvantaggia di materie prime di qualità e profumatissime erbe aromatiche.
La cucina arbëreshe è una cucina povera ma genuina a base di pomodori, cipolle, melanzane e l’immancabile peperoncino piccante, con cui si preparano piatti di pasta fatta in casa, carni a base di capretto e agnello, salumi tra cui la tipica nduja calabrese.
Rrashkatjel me mish kaciqi (fusilli con sugo di capretto), Tumac shpie me klumësht (pasta di casa con il latte) e Dromsat (pasta dei poveri) vengono qui ancora oggi preparati grazie alla volontà delle donne civitesi di mantenere il legame col passato.

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