Terzo giorno. La tentazione è davvero grossa…ed io non ho alcuna intenzione di resisterle! Per cui la parola del giorno è “femmina” e sarà un omaggio veterofemminista a coloro che, come spesso capita, nell’ombra hanno contribuito alla nascita di tante piccole e grandi scoperte. E il mondo della birra, lo scopro nel corso della terza lezione del corso, ne è un chiaro esempio. Ma procediamo con ordine…
La lezione di stasera comincia con quell’atmosfera un po’ agitata e curiosa di quando, a scuola, mancava la maestra, si aspettava l’arrivo del supplente e si cercava di capire se ci si poteva rilassare oppure si doveva rimanere zitti zitti e buoni al proprio posto in preda al terrore…
Mena D’Avino e Luca Mauriello, infatti, questa sera non sono dei nostri ma ci lasciano nelle mani di altri due esperti: Alberto Mochetti ed Emanuele Palumbo. Alberto è un appassionato di birra da anni ma solo da poco si sta cimentando nella produzione, per cui ci porta, oltre alla teoria, anche la sua esperienza pratica. L’argomento trattato stasera riguarda le materie prime e Alberto ci ha addirittura portato qualche esempio di cereali ed un paio di tipi di luppolo da assaggiare ed annusare.
In linea di massima un’idea dei vari partecipanti a questo magico processo ce l’avevamo quasi tutti, ma ascoltare nel dettaglio le diverse fasi e quanta cura ed attenzione sia necessaria in ciascuna di esse è davvero appassionante. Perfino la qualità dell’acqua, che potrebbe sembrare una cosa banale, può far cambiare radicalmente il sapore della birra. Così un’acqua con molto sodio conferisce alla birra morbidezza e rotondità; il magnesio le da un senso di amaro e acido; il calcio e lo zinco, invece, non aggiungono particolari sapori ma sono molto importanti nella fase della produzione. E in effetti è proprio per questo che la distribuzione dei birrifici sul territorio, quasi sempre tiene conto della presenza di acqua particolarmente buona.
Qualcuno si stupirà nello scoprire che il Malto, altro ingrediente della birra, in realtà non esiste! Nel senso che non esiste una “pianta di malto”. Il malto non è altro che il seme di un cereale (generalmente l’orzo) che ha cominciato il processo di germinazione mediante la macerazione in acqua per alcuni giorni durante i quali l’umidità del chicco passa dal 15% ad oltre il 45%. Il chicco insomma si “gonfia”, gli amidi presenti nel chicco si trasformano in zuccheri e comincia a spuntare la radichetta. Il processo viene poi bloccato con una fase di essiccazione e a questo punto il “malto verde” è pronto per le fasi successive. Questo procedimento antichissimo pare sia stato scoperto da una donna, alle prese con la necessità di far conservare più a lungo possibile i cereali e poi applicato alla produzione della birra…
Ci sono anche altri cereali utilizzati ma l’”eletto” è l’orzo e tranne alcuni casi, come l’avena che si utilizza per conferire un particolare sapore, in genere l’utilizzo dei sostituti più a basso costo, viene fatto solo per motivi economici con risultati pessimi sulla qualità della birra. Diversi malti producono birre diverse. Così il Pils o il PaleAle, utilizzati al 100% danno birre chiare, lager o ale inglesi; il malto di frumento, utilizzato in quantità tra il 10 e l’80% nelle weizen e kolsh danno birre leggere e frizzanti con una bella schiuma; il black utilizzato al 5% nelle stout danno colore scuro e sentore di tostato; lo special B usato al 10% nelle scure ale inglesi danno sentore di cioccolato e caramello. E così via…
Un terzo ingrediente della birra è il luppolo, una pianta che appartiene alla famiglia delle Cannabaceae, la stessa della Cannabis per intenderci. Il pensiero è stato istantaneo ed è passato veloce come un missile in tutte le nostre teste…ma Alberto pare ci abbia letto nel pensiero perché ci ha subito sconsigliato di fumarcelo, pare le manchi un elemento essenziale…
Prima dell’utilizzo del luppolo, per amaricare la birra veniva usato il Gruit che era una miscela di diverse erbe aromatiche, tra cui l’artemisia, la cannella, l’anice, zenzero, aghi di pino e molte altre. Nel 1100 una brillante e sagace signora, una suora, per la precisione la badessa Ildegarda di Bingen, scoprì il luppolo e le sue innumerevoli proprietà, soprattutto quella di conservante naturale della birra.
In effetti, nel Medioevo, era proprio compito esclusivo delle suore nei monasteri produrre le birre destinate ai malati e ai pellegrini. Di luppoli ce ne sono molti tipi che vengono utilizzati per diverse funzioni: per l’amaro come il brewer’s gold ed il northern breve; per l’aroma come il saaz, che caratterizza lo stile pilsner, oppure lo spalt, il tettnang, i golding o il fugglero; oppure per entrambe le cose contemporaneamente come l’oramai rarissimo hallertau o l’hersbrucker. Se ne potrebbe parlare ancora a lungo ma una cosa sola vorrei sottolineare: della pianta del luppolo, per la produzione della birra, si utilizzano solo i fiori femminili!
E, sul finire della serata, parliamo del lievito, anzi dei lieviti. C’è un vecchio detto del mondo brassicolo che dice che il birraio fa il mosto e il lievito fa la birra. Se consideriamo che il lievito, per quanto microscopico e unicellulare, è pur sempre un organismo vivente, ci rendiamo conto di quanto la sua gestione possa essere complessa e delicata.
Per la maggior parte delle birre si utilizzano due tipi di lieviti che consumano gli zuccheri presenti nel malto e li trasformano in alcool e anidride carbonica. I due lieviti sono il saccharomyces cervisiae, col quale si sviluppano le “alte fermentazioni” e che da origine alle birre genericamente chiamate “ale”; e il saccharomyces carlbergensis che invece procedono a bassa fermentazione e danno vita alle “lager”. Non sono gli unici impiegati nella produzione.
La scorsa settimana abbiamo conosciuto il nostro amico “Bratt”, il brattanomyces che produce l’acido acetico. E poi c’è il Lactobacillus che invece produce acido lattico. Questi ed altri lieviti torneranno a far parlare di sé quando tratteremo il fantastico e misteriosissimo mondo delle Lambic.
Parlando delle materie prime inevitabilmente abbiamo sfiorato anche il vero e proprio processo produttivo della birra, che approfondiremo in un’altra lezione e vedremo dal vivo in un birrificio della zona. Ma una cosa ci appare subito chiara: è quasi un gioco di prestigio destreggiarsi tra la delicatezza e la “vulnerabilità” di ciascuna fase della produzione, il gioco quasi millimetrico di temperature, umidità, igiene, la difficoltà di gestire un fattore “invisibile” e dinamico come il lievito, la misura degli aromi e degli additivi. Poche produzioni possono fregiarsi dell’appellativo “artigianale” quanto la birra, che come pochissime altre bevande risente in modo così determinante della mano, del gusto e della sapienza del mastro che la produce.
E la preziosità di questo che è sempre stato considerato un vero e propri alimento, ci è testimoniata anche da due esempi del passato remoto che mirano proprio alla protezione di tale preziosità.
Il “Reinheitsgebot” o Editto della purezza bavarese, venne emanato nel 1516 e decretava una serie di vincoli e regole rigidissime per la produzione e la distribuzione della birra e prevedeva, soprattutto, delle severissime punizioni per chi alterava il processo produttivo utilizzando sostanze non previste o nocive. Ancora oggi, pensate, la “Biergesetz”, cioè la legge che regola la produzione della birra in Germania, si basa fortemente sull’Editto del 1516…
In tempi ancora più lontani, nel 1728 avanti Cristo, ed è forse la legge più antica di cui si ha conoscenza, in Mesopotamia veniva emanato il Codice di Hammurabi che addirittura condannava a morte chi non rispettava i criteri di fabbricazione indicati nel codice, chi ad esempio annacquava la birra o a chi apriva un locale di vendita senza autorizzazione. Un’applicazione di questo Codice francamente io non la vedrei tanto male nemmeno ai nostri giorni…
Delle tre eccellenti birre in degustazione questa sera, per la menzione d’onore sono indecisa tra due birre di due stili molto diversi tra loro.
La Jaipur dell’azienda inglese Thornbridge e la Barny Flat dell’americana Anderson. La prima ha un nome indiano per uno stile Indian Pale Ale (IPA). Jaipur è infatti il nome della “città rosa” e l’eleganza della birra può tranquillamente richiamare il fascino di questa lontana città dai caratteristici edifici di quel colore. E’ una delle migliori 50 birre al mondo e il palato ce lo conferma assolutamente. Un bel colore giallo pallido con schiuma bianca e persistente; sui sentori si sono formate due scuole di pensiero tra coloro che sentivano predominanti i sensi di agrumato (mandarino e pompelmo) e coloro che invece ci sentivano più la frutta bianca tipo pesca e ananas; un amaro molto equilibrato, delicato ma astringente. La abbiniamo (solo virtualmente, purtoppo…) con piatti di carne bianca succulenta o su zuppe di legumi e cereali. Sull’etichetta il motto dell’azienda mi sembra veramente un’ottima filosofia “Innovation – Passion – Knowledge”.
La seconda birra è americana ed è una delle cosiddette birre da meditazione perché bevendola si riesce ad apprezzare un motivo in più che rende la vita degna di essere vissuta! E’ la splendida Barney Flat di stile Oatmeal stout dell’azienda Anderson Valley Brewing Company della California. E’ l’esempio classico di ciò che ci ha detto Alberto all’inizio della serata circa l’utilizzo di cereali alternativi all’orzo. In questa birra, infatti, c’è un’aggiunta di avena che ne caratterizza amabilmente il sapore. Al naso subito spiccano le note tostate ma poi subentrano, come in una perfetta esibizione d’orchestra, anche il profumo di frutta rossa, come le ciliegie sotto spirito, caffè d’orzo, liquirizia, legno, cioccolato in un’armonia fantastica. Il finale lungo e armonico obbliga ad una degustazione tranquilla e rilassata.
La serata è stata davvero intensa e faticosa, moltissime informazioni da incamerare, cose da ricordare ed assemblare e sempre meno neuroni sobri disponibili man mano che si procede con la degustazione…
Ci riproponiamo, per la prossima volta, di cominciare un po’ più puntuali per evitare di stramazzare a fine serata sul pavimento dell’Osteria, che pare brutto…
Alla prossima…
Sabrina Prisco